venerdì 25 agosto 2017



 

Capitolo III

 
(trascrizione a cura di Giovanni Lo Presti, Salvatore Salmeri e Massimo Tricamo)

  

ed il Regio Castello, colla consegna delle chiavi di tutta essa città alli officiali politici per deportarsi col nemico con tutta tranquillità, per non soggiacere agli inconvenienti pratticati sempre, retrovandosi ostacolo dagli nemici, non si può ciò denegare. Ma che alcuni principali nonché cittadini e plebei - non avendo riguardo nonché al benefizio del ben pubblico al proprio suo decoro, specialmente alla fedeltà giurata e dovuta al Re dominante - avessero lasciato in abbandono la loro Patria e retirarsi nella Piana e parti convicine, facendosi parziali dell’arme spagnuole, anzi col corteggio del signor di Lucchese maresciallo questa fu azzione non lodabile. Magiormente per lo sperimentato pregiudizio che apportò a tutta questa povera città, mentre se tutti generalmente avessero corso la medema intenzione, non disunendosi, senza dar motivo per tal disunione al signor comandante in questa di proceder liberamente con quei pochi che restarono in città. Il che per certo non avrebbe seguito - se tutti s’avessero ritrovato, come pria - l’acerbissimo flagello e destruzione di tutta questa città, poiché uniti avrebbero placato al comandante in questa colla restituzione della città inferiore alli cittadini per pratticare cogli Spagnuoli, movendo questi l’arme solamente con le truppe che si retrovavano e contro la città murata e Castello, come al principio si propose, forse e senza dubiezza tutto ciò processe per gli nostri misfatti.

 

Il Missegla condanna pubblicamente i cittadini che abbandonano la città gettandosi tra le braccia del nemico spagnolo Descriverei alcuni principali della città che si trasferirono fori di questa città conducendosi nella detta Piana, o nelle città e terre convicine, o per genio cogli Spagnuoli o per timore, o per necessità, o per altro loro motivo; ed inoltre la moltitudine degl’altri di questa città che giornalmente andava e retornava d’una parte all’altra liberamente, e senza contradizione alcuna. Ma per non aver distinta la notizia, specialmente delli cittadini e plebei, si passa sul silenzio. Bensì non si deve tralasciare che tutti quei che s’allonta[na]rono dalla città non furono riguardati dalli medemi Spagnuoli, né dal loro comandante signor Lucchese, ancorché assistessero al suo corteggio di continuo, e di notte e di giorno, con occhio benevolo. Poiché la fedeltà è così delicata e circospetta che pure dagli nemici è preggiata, e si celebra più un nemico fedele che l’amico con infedeltà, oltre che la fedeltà non patisce simulazione ancor con l’evidente pericolo della vita. E s’osservò che alcuni partiti dalla città, con tutto che in essa si retrovavano gli suoi congionti oltre gli amici, speravano alcanzar alcun premio, ma furono defraudati nelle sue pretenzione conforme meritavano. Anzi il medemo signor di Missegla, comandante, in città si fece a sentire publicamente, vituperando l’azzioni di quei che slogarono dalla città, con tutto che ad alcuni per necessarie sue convenienze l’avesse dato il permesso in scriptis di partirsi, ma questi sempre si demostrarono neutrali, per certo complirono col loro dovere. In somma fu così perniciosa la partenza di questi, che dalli loro veri amici e stretti parenti che persistettero in città pure furono biasimati, [a questo punto al margine del manoscritto viene riportata la seguente nota, ndr: nell’originale si trascrive lungamente il tutto, relasciandosi la specialità per convenienza con tutto il metodo dell’Istoria] anzi si viddero molti sonetti e canzoni, per non dir satire e cartelli, contro quei, che senza necessità si partirono.

 

Arresto, ordinato dal comandante Missegla, di tre giurati e di Don Costantino d’Amico, scarcerati dopo aver versato la somma dovuta alla Regia Corte Si retrovavano continuando il loro officio annuale del 1718, con tutto che avesse spirato il termine prefisso dell’anno, il signor Don Federico Lucifero, da spettabile capitano di Giustizia, e li signori Don Francesco Scarpaci, Don Antonino d’Amico e Lucifero, Don Ferdinando Marullo de Alarcon e Don Domenico Lucifero di Don Pietro, da spettabili giurati in questa città. Questi uniti da principio assistevano allo spesso col signor di Missegla comandante, tanto per farsi provisione per le truppe che si retrovavano in essa città, come per gli cittadini, facendo le tasse convenienti alli medemi per approntare ogni sorte di comestibili per tutti in generale. Bensì ebbero molte volte detti officiali politici gravi reclamori col comandante militare, per aver questo molto eccesso nella disordinata provisione richiesta senza pagamento per dette truppe, non puotendo gli cittadini addossarsi un peso esorbitante più della loro facoltà.

E specialmente seguì che richiesti essi signori spettabili giurati d’approntar pochi viveri, in somma bensì tenue, dal detto signor comandante, col pretesto di volerli in conto di quello la città era debitrice alla Regia Corte, non effettuarono essi signori Giurati l’appronto con quella celerità colla quale furono intimati. Perloché alteratosi il comandante Missegla, la mattina seguente della richiesta, che fu a [segue lacuna nella copia, ndr] 1718, fatte radunare alcune sue truppe squadronate con alcuni officiali inviolle per la città colla ricerca di detti signori giurati (tolto il detto d’Amico, quale pochi giorni innanzi, coll’occasione d’osservare nella Piana li suoi poderi e far vindemia prossima del vino, si aveva retirato con tutta la famiglia nella Piana sudetta, il che meglio in appresso si descriverà), come di tutti quelli gentiluomini riguardevoli che per la città si retrovavano ed erano incontrati per le strade da dette truppe, e dagli loro officiali che li guidarono. Ed inoltre di ciò non sodisfatti, doppo aver dette truppe circondato tutta la città pure si conferirono nelle case delli richiesti, tanto che ogn’uno di detti gentiluomini, incontrato per le Piazze o ritrovato in casa, fu costretto per ordine del sudetto di Missegla comandante conferirsi come prigioniero nella città murata, quale in appresso la nominaremo Cittadella, per aver così stimata esso comandante e suoi officiali, ed in casa del medemo signor comandante. Numerandosi nel numero de’ prigionieri tutti li sudetti tre spett.li Giurati e li signori Don Costantino d’Amico [segue lacuna nella copia, non essendo stati annotati altri nominativi di prigionieri, ndr] principalissimi nella città; e condotti (come dissi) con qualche timore, non sapendo la cagione della soppresa, così impensatamente e con ogni disinvoltura il comandante sudetto fece arrestare nella sua propria casa li sudetti spett.li di Scarpaci, Marullo e Lucifero giurati e detto D. Costantino d’Amico, e gli altri furono liberatamente rimessi. E richiesta dalli trattenuti la somma proposta, che si doveva alla Regia Corte, e fattosi il pagamento il giorno seguente, furono scarcerati, con tutto che il giorno della presa fossero stati spesati dal medemo signor comandante e dalla sua mensa, e la notte alloggiati in altre abitazioni d’officiali loro amici nella Cittadella sudetta, secondo in genio d’ogn’uno degli trattenuti.

Anzi, prima di questo accedente e doppo, seguirono altri inconvenienti, e sempre fu necessario soggiacere alle violenze degli officiali militari, per non darsi ombra in cosa alcuna, il che allo spesso accadeva. Per causa che li medemi abitatori in questa, non solo quei che si trattennero quali furono pochi, pure gli altri che andarono ove erano l’arme nemiche, tra loro erano disuniti, non avendo nemeno alcun riguardo al publico benefizio, e volesse Dio che non s’avessero contrariato uno con altro, con rapporti sinistri al comandante di questa come a quello delli Spagnoli nella Piana. Perloché tutti erano riguardati in ogni loro azzione con qualche apprensione, e se da parte degli abitatori rimasti si stava con ogni loro circospezione al servizio del regnante da vassalli, e con timore per quello l’avrebbe potuto succedere, pure il comandante e suoi offiziali da principio si demostrarono con loro umanissimi. Ma conosciuta la disunione coll’emulazione dalli cittadini presero molto ordine, conculcando svelatamente non solo li cittadini e plebei, pure gli principali, tanto che sono astretto raccontare altro accidente ma ridicolo (fra molti seguiti).

 

L’avventurosa e chiassosa ricerca d’un asino da parte del capitano Bagnoli Un dì si ritrovò nel piano del Carmine il cavaliero Bagnoli, capitano di Piemonte, qual era di presidio in questa città, associato d’una battuglia di soldati, facendo la ricerca d’un balduino per condur nella Cittadella una soma di vino. E pur in tempo ed ora, che realmente non si poteva ritrovar detto animale, perloché dava nelle furie e puoco saltò che non avesse comandato a chi l’incontrava che li facesse tal servizio. E riguardando da lontano osservò un balduino, onde inviò per farselo condurre in sua presenza, e non li seguì l’intento, mentre il padrone dell’asino conosciuto ciò si nascose in altre strade; il che pure successe con altro animale che nemeno puoté averlo per esserli sparito d’innanzi col conduttore di esso. Onde riscaldato magiormente il capitano, non si poteva dar pace, molto acceso di colera e per disgrazia s’incontrò col signor spettabile giurato d’Amico (che allora non avea passato nella Piana come si cennò), volendo che di subbito s’approntasse tal animale dal medemo giurato per esser servizio del Re. E benché s’avesse con bel modo volsuto placare al sudetto cavalier Bagnoli, non fu possibile, anzi borbottando principiò a sparlare contro tutti li paesani, tacciandoli da rubelli. E benché nel principio l’azzione indiscreta del capitano, per esser di puoco momento, avesse sembrato agli astanti ridicola, non di meno eccesse questi nell’indiscretezza, con puoco decoro d’un publico in faccia d’un Giurato ed in presenza d’un popolo concorso alle voci del medemo, volendo inoltre offendere coll’opre (come fece colle grida) al giurato sudetto. Questo, avendosi impegnato mosso dal puntiglio d’onore, non avendo riguardo al personaggio, benché indegno del carattere che godeva, molto ardentemente lo maltrattò con parole pregnanti, tanto che fu forzato succumbere, ritrovandosi lo spett.le Giurato d’Amico associato da molti cittadini che lo spalleggiavano, e si disse che il non aver seguito alcun sinistro inconveniente fu un portento, tanto più che il capitano Bagnoli in quell’istante era molto riscaldato per la molta fatiga fatta nel ricercare un somaro per la condotta d’una soma di vino, e di più per esser in tempo estivo e molto caldo. In fine s’appagò in tutto, avendosi ritrovato il balduino d’alcuni paesani.

 

Bando spagnolo (poi revocato) che ordina ai cittadini di trasferirsi nella Piana, pena la mancata somministrazione del pane. Benefici alla collettività milazzese grazie all’operato del giurato Antonino d’Amico, che garantì forniture di pane al centro cittadino Non avendosi tolto agli cittadini ed abitanti in città di qualunque condizione di poter passare nella Piana, con tutto che d’ordine del signor Lucchese maresciallo s’avesse promulgato publico bando - con aversi pure affisso nella chiesa di San Giovanni pochi passi distante dalla città, ove resideva l’ultima guardia delli Spagnoli - che se essi cittadini volevano pane si dovessero retirare tutti in detta Piana, altrimente quello in nessun modo più somministrato, pure s’avrebbero compreso per rubelli della Maestà del Re Filippo Quinto di Spagna. Bensì tal bando per puoche hore comparì affisso e si promulgò in città, che fosse stato sollecitato ed emanato a contemplazione d’alcuni che si retrovavano in detta Piana, affinché generalmente tutti corressero l’istessa pariglia nell’esito dell’urgenze che versava tra le Maestà di Filippo Quinto Re della Spagna e di Vittorio Amedeo Re di questo Regno.

 

Il sudetto signor Don Antonino d’Amico, uno delli spettabili giurati retiratosi nella Piana con tutta la sua fameglia (come si disse), ed ottenuta la licenza dal comandante di Spagna in detta Piana, esercitava l’offizio di giurato nel Casale di Santa Marina (ove commorava), dando speciale cura al governo politico, anzi superò che puotesse amministrare la giustizia così nelle cause criminali come civili, procedendo pure a carcerazioni ed informazioni criminali, tanto che faceva l’offizio di giurato e capitano, con aver eletto l’altri officiali subalterni per tutte l’occorrenze, facendo promulgare più bandi ed ordinazioni al servizio del Re di Spagna per li abitatori in detta Piana e per tutti quelli che in essa s’avevano retirato, tenendo corte formata in detto Casale di Santa Marina. Perloché si lucrò con molti negozij e con tutto ciò si demostrò parzialissimo cogli abitanti in questa città, e colli suoi congionti ed amici molto benevolo, facendo pervenire in città quantità di pane, e per alcuni particolari un puoco di neve, pagandosi bensì a grana diece il rotolo. Di più, scrivendo quasi ogni giorno molti viglietti alli spettabili giurati di questa suoi colleghi, dandoli metodo e formalità come deportarsi, specialmente sopra li formenti che si panizzavano in detto Casale di Santa Marina per provisione di questa città in ogni giorno. Anzi si dichiarò con persone di qualità che andavano in detto Casale che il suo operato era solamente intento al benefizio di questo publico, e per ottenersi in città quello li necessitava, dispiacendoli al maggior segno che non l’era permesso di svelatamente procedere in altro modo, per aver in detto Casale molti emoli, e non volersi apprendere da quel comandante Spagnuolo per molto affezionato a questa città e suoi abitatori, e ciò nonostante dalli cittadini di questa si discorreva secondo la loro inclinazione, d’alcuni parziali del sudetto signor d’Amico Giurato si lodava il suo operato, ma d’altri s’intendeva il contrario. Si può certamente affermare che detto signor d’Amico giurato sempre recò benefizio alla città, specialmente nella distribuzione del pane, tanto che se non s’avesse retrovato in detto Casale o non ingerito col titolo di giurato s’avrebbe molto patito per detto pane.

 

L’evolversi delle operazioni belliche impose l’abbandono improvviso dell’abitazione da parte del capitano di giustizia Federico Lucifero, ritiratosi nel convento dei Cappuccini, ove lo raggiunse il nipote Domenico Lucifero, giurato Il precisato spettabile signor Don Fiderico Lucifero, capitano di Giustizia, assistendo di continuo con tutta la squisita attenzione che doveva al servizio reale, anzi allo spesso richiesto dalli detti signori giurati per intervenire alle consulte, per esser persona intelligente e prattichissimo, fu forzato - raccolto alcun bagaglio per suo proprio trattenimento, lasciando in abbandono il copioso mobile nella casa del signor Don Francesco Lucifero suo fratello, nel quartiere di San Giacomo - retirarsi nel Convento de Padri Cappuccini, ove pure intervenne il sudetto spettabile signor Don Domenico Lucifero, suo nepote, uno delli spettabili giurati. Il che seguì per il timore delle bombe e cannonate, che senza difficoltà dovevano fra breve seguire, allorché sarebbe stata la città strettamente assediata dall’arme spagnuole, mentre s’osservavano molti preparamenti per effettuarsi tal assedio, qual in appresso con ogni dilingenza e distinzione s’espresserà.

 

Considerazione del Barca, in verità alquanto prolisse, sui cittadini che decisero di abbandonare il centro cittadino. Secondo l’autore, se questi cittadini non fossero fuggiti nella Piana, l’Assedio si sarebbe limitato ad una mera consegna delle fortificazioni, così come avvenuto a Palermo e Messina Osservandosi dall’abitatori rimasti in città che il signor Missegla comandante, di giorno in giorno s’avanzava nel dominio con indiscreta rigidezza con tutti essi cittadini di qualunque condizione, per esser pochi e la maggior parte retirata nella detta Piana e lochi convicini. Bensì alcuni col suo permesso in scriptis o per necessità per vivere in quanto alli plebei e poveri, o per invigilare alli suoi propij interessi nella vindemia delle loro vigne già maturate l’uve, altri per timore di non soggiacere col pericolo della vita, battendosi la città dall’arme nemiche. Da tutti in generale e publicamente si discorreva, specialmente dalli prudenti, se la partenza delli loro concittadini, lasciando in abbandono la propria loro Patria nelle presenti calamità ed afflizioni, fosse stata lodevole, magiormente retirandosi tra gli nemici, ancorché internamente fossero con fedeltà al vero e legitimo Dominante, mettendo in campo questa massima: che alle volte è profittevole, anzi necessaria, la finzione nell’azzioni, però che sono publiche e riguardano il benefizio o malefizio, non che d’un publico e propria Patria, pure de regni, come s’esercitavano nell’imbrocco ed assedio degli Spagnuoli nemici contro questa città, non si possono applaudere quelle delli volontariamente partiti, abbandonata la Patria, e con ricoverarsi nel domicilio del nemico, demostrandosi pure non solo suoi parziali, ma confidenti, per il che da dove si può far congiuntura della loro fedeltà al legitimo Dominante.

E se pretendendo fingere (come vanamente attestano) s’uniscono con quello che attualmente (come si scorge) ricercano la perdita del loro padrone, il consumo delle proprie facoltà, il distrugimento della propria Patria, e finalmente lo star a descrizione col vassallaggio d’altro regnante. E concedendosi il tutto alla sua disposizione che per riguardare al suo particolar interesse, trascurate tutte sudette massime, vogliano simulare e fingere con destrezza, col riguardo d’abboccarsi col vittorioso, nemeno ciò è compatibile, poiché nelle massime militari, nonché politici, l’azzioni d’ognuno sono riguardate con ogni circospezione, anzi menoma ombra appresa nelle dette operazioni non solo si riguarda oculatamente, pure alle volte si castiga ingiustamente da chi tiene il dominio, servendo questo per esser necessario per buona ragione di Stato.

E finalmente trascurate tutte le sopra dette reflessioni, dandosi qualunque applauso alle sue azzioni, per aversi adoprate finte e simolate, restando nell’animo il vassallaggio del loro Re dominante, non so come questo li possa suffragare, colla sola considerazione che nelle materie di fedeltà così Divina, come umana, è vuopo publicarsi svelatamente senza finzione alcuna, pure coll’eccidente pericolo della vita, dovendosi confessare schiettamente.

Doppo si deve pure reflettere che se avessero remasto in città cogli altri abitatori, non s’avrebbero sofferti non solo tanti crucij e patimenti, nemeno la desolazione della loro città e Patria, poiché ritrovandosi tutti uniti non s’avrebbe devenuto a questo, ma solo alla conquista delle fortezze reali, senz’alcun detrimento della città, come in Palermo e Messina, principali cittadi del regno, con tutto che nell’ultima avessero concorso le truppe tudesche per sussidio tutte le volte che con le loro arme l’avessero possuto fare. Ma fuggiti volontariamente tutti gli abitanti, segregandosi l’un dell’altro, e la maggior parte accudendo col nemico, da dove si puoteva sperare che gli officiali che reggevano non si rendessero dell’intutto padroni, conoscendo per nessun modo puoter avere ostacolo alcuno, come si sperimentò in questa città più del dovere. E così alli sudetti che lasciarono la Patria l’apportò più biasmo che lode, e forse in alcun tempo si rammenteranno queste azzioni passate, come presenti, da coloro che l’hanno riguardato da Argo perspicace, o per buona regola di Stato da chi l’appartiene, o pure per emolazione d’altri particolari.

 

Il mancato introito delle gabelle comporta l’arresto di Francesco Impallomeni, suocero del giurato Antonino d’Amico Necessitando al maggior segno alli spettabili signori Giurati molta somma di denari per diverse urgenze, magiormente che non entravano più gabelle a benefizio della città, tanto per la diminuzione e mancanza della maggior parte delli cittadini, come per non aver l’introito delle principali gabelle della macina delli formenti (che si macinavano nel Casale di Santa Marina, ove restava il dritto di dette gabelle in puotere del sacerdote di Pisano paroco), fecero li medesimi signori Giurati costringere a Francesco Impallomeni, pleggio [garante dell’adempimento, ndr] per alcune gabelle prese dalla città, delle quali s’andava in debito in alcuna parte dal sudetto spettabile Don Antonino d’Amico, giurato e genero del sudetto di Impallomeni. Quale non volendo sodisfare col pretesto non esser principale gabelloto, e con altri regiri, s’ordinò che fosse posto in carceri del Regio Castello, ove commorò da prigioniero per più giorni nella carcera, nella quale sogliono trattenersi gli più vili plebei, per ritrovarsi in quel tempo le camere per le persone onorate e tutte piene di offiziali per custodia d’esso Castello. Perloché l’Impallomeni fu tassato, non avendoli suffragato l’esser suocero del detto spettabile d’Amico giurato e forse la sua prigionia seguì per dispetto del genero, il quale con tutto che s’avesse molto lamentato con molte lettere alli spettabili giurati suoi colleghi, dispiacendoli il tratto contro il suocero fatto, si renderono frustratorie le sue instanze, tanto che il detto d’Impallomeni fu forzato sodisfare alla città onze trenta per uscir fori di carceri, e senza dimora alcuna. E di subbito si retirò nella Piana, lasciando la casa al sacerdote Don Giuseppe suo figlio, il che effettuarono l’istesso molti e molti altri cittadini e plebei con alcuni principali della città, colla reflessione che, superando li Spagnuoli la città, quei che abitavano nella Piana apparessero loro familiari, per aver abbandonato la Patria, e con esser di molto sollievo alli loro congionti remasti; e nel caso che fossero state discacciate l’arme di Spagna, non si dasse ombra agli officiali, che dell’intutto avessero abbandonato le proprie case nella città. Il che diede motivo agli veri vassalli del legitimo dominante di vituperare simili attentati, reflettendosi pure che ciò era molto pregiudizio alla città, non potendo pratticare li suoi abitatori le loro giuste ragioni col signor comandante, per retrovarsi colla debolezza d’un corpo debilitato dalli principali membra, qual era la quantità di tutto il popolo come prima. Riflettendosi inoltre che per politica di Stato era profittevole al signor comandante per servizio Reale che fossero gli cittadini di qualunque condizione fra loro disuniti, non puotendosi nemeno nell’occorrenze ancor ad essi necessarie e favorevoli ad un tratto unire, con tutto che conosciuto il bisogno volessero, come si sperimentò in quel tempo che si retrovavano li Spagnuoli coll’assedio a questa città.

 

Sequestro di vino a D. Vincenzo Calcagno e di frumento a D. Giuseppe Carrozza, appaltatori delle gabelle, da cui il loro debito nei confronti della città, con conseguente asta pubblica Retiratosi tra l’altri nella Piana li signori Don Vincenzo Calcagno e Don Giuseppe Carrozza, ed essendo debitori alla città per le gabelle da essi prese e non sodisfatte, occorrendo la strettezza di denari alli detti spettabili signori giurati, da essi al primo fu tolto tutto il suo vino che teneva ripostato in magazeno ed al secondo quattordeci salme di formenti che teneva in sua casa, a conto del loro debito, il che non avrebbe mai seguito se essi si retrovavano in città come gli altri. E benché d’entrambi avessero processo molte lamentazioni, nondimeno si proseguì da essi spettabili giurati la presa del vino e delli formenti delli sudetti signori di Calcagno e Carrozza, colla vendita publicamente.

 

Istanza dei giurati al Lucchese allo scopo di macinare il frumento ed evitare la carestia. Rifiuto del Lucchese che invita i giurati a rivolgersi al viceré spagnolo Aumentata al maggior segno la carestia di pane nella città, con tutto che molti degli cittadini giornalmente si provecciassero per mezzo d’altri loro concittadini, amici, e congionti che si retrovavano nella Piana, bensì alle volte alli medemi non l’era ciò permesso, incontrando con soldati indiscreti che erano di guardia, con toglierli tutto il pane, che nascostamente conducevano per le strade non consuete.

Li tre spettabili giurati remasti in città, avendosi l’altro d’Amico loro collega retirato nel Casale di Santa Marina (come si disse), ottennero dal signor Missegla, comandante, di puotere scrivere a nome di essa città al signor Lucchese comandante spagnuolo nella Piana per fargli macinare li proprij suoi formenti per non perirsi di fame gli poveri cittadini, quali per nessun modo entravano nella guerra intrapresa, avendosi sempre essi demostrato neutrali, con tutto che fossero vassalli del loro Re Vittorio Amedeo. Il che effettuato, con aver interposto il sacerdote sudetto di Pisano, cappellano nel Casale di Santa Marina, qual molto prevaleva appresso il detto signor di Lucchese comandante spagnolo, e con aver pure inviato al [il, ndr]signor Don Mario Cirino cavaliero d’ogni bontà al sudetto signor di Lucchese, con lettere di credenza per l’effetto sudetto, e benché s’avessero con ogni sommissione e con ogni energia fatte le necessarie espressioni dal signor di Cirino, non volse il signor Lucchese acconsentire, asserendo esser necessario ottener la licenza dell’Eccellentissimo signor Marchese di Lede Viceré spagnuolo, che resideva nella città di Messina. Onde accrescendosi la scarsezza del pane, li sudetti tre spettabili giurati, col permesso del signor di Missegla comandante (come in tutte l’urgenze sempre pratticavano per non dar ombra d’infedeltà), inviarono per terra alli signori don Pietro Lucifero e don Saverio Lombardo, gentiluomini principali di questa sudetta città, al detto signor Viceré spagnuolo con lettere credenziali per ottenere col proprio formento della città le farine (come prima) macinate nelli molini della Piana e territorio. Il che seguì a 20 [segue lacuna nella copia, ndr] 1718.

 

Lo Spinola, tenente generale, ostacola il ricevimento dei giurati, ma alla fine il viceré li riceve e soddisfa la loro istanza rivolta a macinare frumento a S. Marina Pervenuti li medemi signori di Lucifero e Lombardo in Messina stentarono più giorni per ottener udienza dal signor marchese di Lede Viceré, intercettatoli dal signor Don Luca Spinola, Tenente Generale dell’arme spagnuole, per aversi questi sempre demostrato mal affezionato a questa povera città. Alla fine con molto loro stento furono ricevuti gli ambasciadori sudetti con ogni umanità da quel signor marchese viceregente e per l’esposto sopra il pane li fu risposto che s’avrebbe dato l’ordine al maresciallo Lucchese per redursi li frumenti della città in farine per quanto sarebbe giornalmente necessario per li soli abitatori in città.

 

Ritardo del Lucchese nell’eseguire le disposizioni viceregie sulla macinazione dei frumenti Retornati questi signori di Lucifero e Lombardo con ogni celerità nella patria, per conoscere l’estrema urgenza di tutto il popolo, s’ebbe molto a stentare col detto signor di Lucchese maresciallo per ottenersi il permesso di quel signor viceré impetrato, ritrovandosi molte difficoltà, con aversi publicato in città che la negativa procedeva a contemplazione d’alcuni emoli di questa patria, che residevano col detto signor comandante spagnuolo nella Piana, ad essi affezionato, concorrendo molti della comarca sempre nemici di questa città, quali in ogni modo volevano che tutti gli cittadini lasciassero la città in abbandono ed associarsi con essi in compagnia delli Spagnuoli. Alla fine, trascorsi alcuni giorni, s’esequì l’ordine di quel signor marchese viceré, con aversi prima fatto descrivere il numero distinto di tutti gli abitatori in città commoranti, colla fede giurata del reverendo Don Diego Perrone arciprete, quale rimessa a quel signor comandante permise solamente che si dovessero panizzare salme tre di formenti per ogni giorno, quali si dovevano inviare il giorno antecedente per redursi in farine nelli molini del territorio e comarca nel casale di Santa Marina, ove ottenuta la licenza in scriptis dal sudetto sacerdote Pisano, cappellano, col pagamento bensì del dritto competente per la gabella, si dovessero nel casale sudetto redursi in pane e doppo inviarsi in questa città (come si descrisse prima) per ogni giorno. E fattosi il calcolo del pane giornale sopra il numero dell’abitatori, competia grano uno e piccioli tre di pane per ogni uno. Il che seguì per più giorni, mancando spesse volte il pane per causa: o per non aversi macinato li frumenti o per non aversi panizzato, o per mancanza di bestie per condursi, o per altro accidente che soleva occorrere.

 

Iniziano le vendemmie ed in molti si trasferiscono dal centro cittadino alla Piana per curare la raccolta delle uve e la vinificazione (anche chi in verità non possedeva un sol piede di vite). Ma il Missegla, imitando il Lucchesi, proibisce di spedire viveri verso la Piana Ritrovandosi la città molto affamata ed essendo già venuto il tempo che si maturavano l’uve per vindemiarsi, la maggior parte degli abitatori in questa ed alcune famiglie principali si retirarono di domicilio in detta Piana, col pretesto d’attender alla cura delli loro interessi nella vindemia sudetta. Bensì si stimò esser differente il motivo di molti, verificandosi con apparenza evidente che la maggior parte delli fuggitivi volontarij, compresi li principali, non tenevano nemeno un piede di vite - nonché vigne - per raccogliere vini mustali, perloché si deve attribuire l’uscita di alcuni alla propria sua volontà, non concorrendo alcuna necessità precisa. Conforme per loro legittimazione da essi si vuole attestare con impegno. E benché non fosse stato sin a quel tempo denegato il passaggio di tutte le persone di qualunque condizione, con andare e retornare d’una parte all’altra, nondimeno dalli Spagnuoli era proibito che in città puotesse entrare alcuna sorte di viveri, escluso solamente il pane quotidiano alla quantità prescritta. Dal che ebbe giusto motivo il signor comandante Missegla d’ordinare alle guardie nella Porta di Messina che non puotessero nemeno uscire dalla città vettovaglie, con tutto che s’inviassero alli cittadini fuggitivi per genio dalli loro congiunti ed amici. Il che molto piacque e fu di grandissima soddisfazione agli veri cittadini disappassionati che volevano concorrere alla giustizia ed affine che tutti quei che se ne uscirono, facendosi parziali delli Spagnuoli, cogli altri loro congionti remasti in città, non godessero più di quello che non potevano conseguire gli fedeli al servizio del loro dominante, giaché per sempre volsero soggiacere a tutti gli infortunij e patimenti in appresso seguiti.

 

Il Lucchesi inibisce in piena vendemmia di trasportare mosti verso il centro cittadino. Con suo bando proibisce altresì il libero transito delle persone dalla porzione di territorio controllato dagli austro-piemontesi alla Piana, transito sino a quel momento tollerato, costringendo le famiglie proprietarie di vigneti (si noti che Milazzo era allora una città dall’economia quasi esclusivamente vitivinicola) a dolorosi distacchi: chi intendeva vendemmiare doveva infatti rinnegare il sovrano Vittorio Amedeo, giurando fedeltà alla corona di Spagna, con conseguente impossibilità di rientrare nel centro cittadino per ricongiungersi ai propri familiari Maturate già l’uve, volendo quelle raccogliere li cittadini, non permise il signor Lucchese maresciallo che si dovesse condurre in città qualunque minima porzione di vini mustali, con aver fatto promulgare bando publico - con affissarlo nelli lochi da esso deputati, specialmente nella chiesa di San Giovanni, ove persisteva la guardia più vicina alla città - che qualunque cittadino di questa si dovesse dichiarare se voleva seguire l’Arme di Spagna, senza dimora dovesse uscire dalla città, altrimente si dichiarava per rubello ed elasso il termine nel bando descritto d’hore ventiquattro proibì il signor Lucchese il passaggio per insino alle prime guardie poche distanti d’essa città. Perloché molte famiglie principali di questa se ne andarono nella Piana per far ivi la loro abitazione, con tutto che vi fosse stato il legitimo pretesto di vendemiare le loro vigne. Il che a molti servì per colorire la loro intenzione, attribuendola alla necessità.

Sarebbe quasi innumerabile la quantità delle persone, così cittadine come plebee, oltre delle principali gentiluomini, che lasciarono la propria loro patria ricoverandosi nella Piana e terre e città e territorij convicini, ove dimoravano da padroni gli Spagnuoli, se si volesse descrivere. Nondimeno è necessario per sapersi l’azzione posta in opra  almeno notare alcuni de’ principali che uscirono tanto dal principio che vennero gli Spagnuoli, come sussequentemente sin al tempo che da essi si formò l’imbrocco con l’assedio stretto e tralasciando gli descritti vi furono [seguono due pagine in bianco da mettere in relazione alla seguente nota a margine: «nell’originale vi sono tutti notati», segno evidente che le due pagine in bianco avrebbero dovuto contenere nominativi non trascritti dalla copia originale. L’informazione è importante per capire che il manoscritto consultato e trascritto a cura del Piaggia non era l’originale bensì una copia di quest’ultimo, ndr].

E molti altre fameglie principali, non mentionandosi le persone cittadine e plebee, e popolane, che eccedettero le due parti degli abitatori in città, oltre di quelli che si retrovavano o in Palermo o in altre parti del Regno, quali pure tutti si retirarono cogli Spagnuoli. E finalmente dell’altri che facendo la vindemia s’intercedette dell’intutto il passaggio in città e per mera necessità furono costretti trattenersi in detta Piana. E se questi erano molto addolorati per ritrovarsi ove commoravano gli Spagnuoli, avendo lasciato le proprie case a descrizione d’ogn’uno, gli altri che volontariamente se ne andarono si demostrarono molto giovili per aver compagni, anzi volevano che dell’intutto la città fosse disabitata e generalmente ogn’uno assecondasse la sua inchinazione, retirandosi con essi. Se ciò fosse stata opra di lode o biasmo si deve discorrere in altri trattati e si lascia alla considerazione degli neutrali e disappassionati, dalli quali si può con ogni esattezza investigare il medollo del seguito con tutta disinvoltura.

 

Produttori vinicoli della Piana spingono il Lucchesi ad adottare provvedimenti loro favorevoli per lucrare sulla compravendita dei mosti ai danni dei loro colleghi rimasti nella Piana o ai danni di quei produttori che soffrivano penuria di bottame in cui immagazzinare la nuova produzione. Unica agevolazione concessa dal Lucchesi il trasporto delle botti dal centro cittadino alla Piana, agevolazione tuttavia compromessa dalle intemperie che causarono la distruzione di molti fusti Conoscendosi evidentemente il gravissimo detrimento che recava a tutto questo publico, tutte le volte che non si permettesse dal signor Lucchese maresciallo - che dominava nella Piana - farsi la vendemia dalle persone che restarono in città, non puotendo queste aver più la comunicazione (come pria) di passare in detta Piana, fu necessario sodisfare con le sommissioni più possibili al detto signor di Lucchese comandante, con interponere la sua fervente instanza la maggior parte di quei che assistevano commoranti in detta Piana al corteggio del detto signor di Lucchese, e solamente si puoté alcanzare ed ottenere la facoltà di condur in detta Piana da questa città gli botti e caputa di conservarsi sudetti musti, così per terra come per mare, con espressa condizione che detti botti si dovessero repostare conducendosi nella Marina, da dove doppo trasportarsi con carri o d’altra forma nelli luoghi deputati, e con ordine speciale, bensì che tutti li vini mustali si dovessero repostare dalla parte di sopra il campo qual era formato nella contrata del Barone. Perloché non potendosi far altrimente, con tutte l’esquisite diligenze usate dagli poveri abitatori, oltre il grave dispendio ed interesse patito, molti perdettero quantità di botti, tanto per la trascuraggine di chi dovea assistere, come per aversi disperso dall’onde del mare, ritrovandosi repostati nella ripa di esso, per aver seguito un vento validissimo e la maggior parte per aversi rotta nello trasporto, oltreché quei che si conservarono restarono fracassati. Ed il peggio fu, come publicamente si raccontò in città colla relazione veridica, che tal ordine emanato dal signor di Lucchese comandante seguì a contemplazione d’alcuni paesani di questa, quali consultarono [consigliarono, ndr] al medemo signor comandante esser servizio delle sue truppe spagnuole repostarsi detti vini mustali nella Piana, per non servirsene quei che dimoravano in città. Ma il principale motivo fu che alcuni consultori [consiglieri, ndr] commoranti in detta Piana avevano venduto quantità di musti nella città di Messina e, seguendo la proibizione sudetta, l’avrebbero comprato, specialmente da chi non avea commodità di stipo o di luogo per far la conserva delle vini, di baratto e a basso prezzo. Soggiungendosi che alcuni malintentionati avevano pensiero di vendemiare le vigne delli loro congionti, parenti ed amici e lucrarsi a loro voglia tutte le volte s’avesse dell’intutto proibito lo trasporto di detti botti e la comunicazione di poter inviare persone per effettuarsi la vendemia sudetta. E con tutto ciò alcuni commoranti in detta Piana s’appropriarono per conto proprio gli vini repostati d’altri cittadini, che sempre commorarono in città, con averseli venduto da padroni. E questi non s’espressano per motivo di convenienza, poiché l’azzioni da molti usate dando nell’eccesso non si devono publicamente palesare.

 

La vocazione vitivinicola di Milazzo alla base della divisione di numerose famiglie, a causa del provvedimento che inibiva ai proprietari di vigneti di tornare nel centro cittadino terminate le vendemmie (salvo che - rimanendo fedeli a Re Vittorio Amedeo - non rischiassero di farsi incriminare come ribelli) Toltosi dell’intutto il commercio tra la città e la Piana, di tal modo che molti cittadini ritrovandosi in campagna per aver andato a riconoscere le loro vigne per vendemmiarle - con intenzione di far retorno la sera in città - furono proibiti retornarsene, comprendendosi tra questi alcuni principali gentiluomini, religiosi preti e pure donne. Perloché s’osservò che la maggior parte degli abitatori restò divisa, restando nella Piana o il padre o la madre, o il fratello, o la sorella, o altri parenti, ed in città li loro congionti. Onde seguì un pianto quasi universale di tutti gli poveri abitatori, non solamente in quel tempo che si tolse il commercio che fu nelle vendemie, anzi più innanzi, ma pure sino che slogò il campo spagnuolo, finito l’assedio delle loro arme, non avendosi notizia se vivevano o pure morirono quei che restarono nella detta Piana e nemeno come sortì la raccolta del vino d’ognuno.

 

I mosti immagazzinabili nella Piana oltre Barone, contrada ove s’era stabilito il campo spagnolo. Riduzione della porzione di pane assegnata a ciascun cittadino, compensata dal Missegla con ulteriore distribuzione di biscotto per uso delle truppe Inoltre molti cittadini per non aver avuto la commodità di portar botti, né di persone, per assistere alla vendemia delle loro vigne, perdettero tutte l’uve d’esse vigne, e questi furono molti e molti. E benché - antecedentemente vedendosi gli cittadini costretti di non poter fare la vendemia delle loro vigne e colla sua propria soddisfazione e di presenza - li spettabili giurati di questa, col permesso del signor di Missegla comandante, avessero inviato sopra una barca seriamente al Padre reverendo Fra Francesco Ponzo di questa, con altri Padri dell’ordine di San Francesco d’Assisi Reformati, al signor marchese di Lede viceré di Spagna nella città di Messina, doppo le replicate instanze non si puotè altro ottenere da quel signor marchese viceregente solo che li vini mustali si repostassero nelle contrade di sopra la contrata del Barone, ove resideva il campo spagnuolo, con la distribuzione del pane alla città solamente ratizato a tanto per testa, come prima. Il che non era più di grano uno e piccioli tre per ogni persona in ogni giorno (come si descrisse). Onde il signor di Missegla comandante, compassionando tal penuria, fece di nuovo distribuire per la plebe molto biscotto, benché di malissima qualità. E con tutto ciò non comparse la miserabile catastrofe seguita verso questa povera città. In appresso si descriveranno l’afflizioni patite e sofferte da tutti questi abitatori senz’esclusione d’alcuno.

 

Il 28 settembre 1718 giungono dalla Calabria truppe austriache (fanteria e cavalleria) e, da Napoli, il generale austriaco d’origini irlandesi George Oliver conte di Wallis (1671-1743). E giungono soprattutto viveri che consentono di allontanare lo spettro della carestia Nel medemo tempo che si raccoglievano l’uve dalle persone che assistevano in detta Piana, tanto proprie come delli loro parenti ed amici remasti in città per la proibizione descritta, sovragiunsero nel campo spagnuolo molt’altre truppe della propria nazione. Perloché si raddoppiarono le guardie fortificandosi in più luoghi, con tutto che s’avesse dimorato alcun tempo a formar alcuna batteria, qual doppo in più parti seguì.

Vennero in questo Porto sotto il 28 settembre del dett’anno 1718 due galere di Napoli, conducendo all’eccellentissimo signor Generale Vallais, officiale tudesco. E similmente approdarono da Calabria nel detto giorno dicidotto tartane ben grosse cariche di fanteria al numero di tremila, con cavalleria, tutte Alemane, scortate pure da dette galere, conducendo tutte copiosa provisione di guerra con molti viveri e commestibili, fra l’altri quantità di pane e farina. Perloché questa città si sfamò un puoco, refocillandosi al quanto dalla carestia per molto tempo sofferta. E benché s’avessero venduto detti viveri con qualche prezzo alterato più del solito, nondimeno gli cittadini s’appagarono, restando consolati che conseguirono un ristoro inaspettato, con tutto che da più giorni innanzi li fosse stato promesso dal detto signor Missegla comandante.

 

Il campo spagnolo si allestisce in vista dello scontro decisivo in contrada Barone, essendo giunti rinforzi, ossia fanti e cavalli da Messina. Fortificazioni erette dagli Spagnoli, tra cui spicca la batteria che dalla Tonnara di Milazzo puntava le proprie artiglierie verso Porta Messina Martedì lì 4 ottobre susseguente s’ebbe la notizia veridica in città che dalli Spagnuoli, avendosi gagliardamente e senza intermettere alcuna dimora travagliato, s’abbia nella Piana formato colla regola militare il loro campo, presidiato d’una parte all’altra. Come pure nel medemo giorno s’ebbe relazione che il campo sudetto di Spagna nella Piana s’andava ingrossando con quantità di fanti e cavalli venuti dalla città di Messina, con aver condotto seco e polvere e palle con più cannoni da battere e volanti, e con mortari di bombe e di pietre, ed aversi fatto le sue ben munite trinciere, così dalla parte di Ponente nel Purracchito sino alla ripa del mare, come nella parte d’innanzi verso Levante e Scilocco verso la Marina, fabricando un bastione ben forte nella Tonnara di Milazzo, a dirimpetto della Porta di Messina, formandosi regolatamente detto campo nella contrata del Barone, colla latitudine che dava d’una ripa da Levante all’altra a Ponente.

Di più venne in detta Piana altro officiale maggiore dal signor maresciallo Lucchese, non avendosi penetrato come si chiamasse. E questo fece fare molte linee, incominciando dalla chiesa di San Giovanni, dalla parte di Ponente, con molte trinciere sino al campo sudetto. Il che apertamente, e con distensione, s’osservava dalla parte superiore della città, per non esservi molta distanza, tanto che col cannocchiale si puotevano numerare distintamente e gli cavalli e gli fanti e tutte le truppe che travagliavano in dette trinciere.

 

Il Wallis loda le fortificazioni erette dal Missegla, ordinando nel contempo - per esigenze di difesa - la demolizione di alcuni fabbricati civili al di fuori di Porta Messina Giovedì lì 6 del medemo ottobre il signor Generale Vallais, avendo riguardato le fortificazioni fatte così da dentro, come fori la città, quelle fra breve tempo dal signor comandante Missegla fatte nella cittadella e Reggio Castello ed altre, e con puochi soldati, furono tutte lasciate come si retrovavano e con l’applauso dato al signor di Missegla comandante dal signor Generale Vallais fu per mera convenienza. E ciò nonostante, impensatamente e fori d’ogni aspettazione ordinò con molto rigore il medemo signor di Vallais Generale che si demolissero due case terrane, l’una del sacerdote don Lutio Foti e l’altra del clerico Don Alberto Caravello, che esistevano pochi passi distanti nelli loro lochi fori la Porta di Messina e lontane così di detta Porta di Messina, come della chiesa di San Giovanni, ove resideva la prima guardia delli Spagnuoli, altri pochissimi passi verso Ponente, togliendosi da dette case li tetti. Come pure fece demolire un magazzeno grande del signor Don Mario Cirino, che si retrovava fori detta Porta per la parte di Levante, discoprendosi dell’intutto. Ed il peggio fu che nemeno si concesse spazio, benché minimo, di togliersi dal detto magazeno da botti sessanta piene di vino, e da esso e dette case il mobile che si retrovava, perloché si può considerare il grave interesse delle sudette persone, quali, oltre la perdite delle fabriche, non puoterono li padroni aver tempo di condurre in altra parte ed il vino e le botti ed il mobile che si retrovavano in detti edificij. Inoltre non si puoteva tolerare che, dato l’ordine per effettuarsi tal demolizione, nel medemo instante concorrevano molti soldati, [segue termine di ardua trascrizione, ndr] svelatamente tutta la robba, e nemeno si puoteva aprir la bocca.
 
 
 
Il conte George Oliver Wallis (1671-1743) era il generale austriaco che, giunto a Milazzo nel settembre 1718, ordinò l'abbattimento di numerosi fabbricati del centro cittadino, allo scopo di agevolare la difesa della stessa Milazzo dall'assedio delle truppe spagnole. Sotto i suoi ordini caddero interi isolati lungo la Marina e la via Umberto I. "Maledetto era il Wallis, autore di tanto guasto: bramavano i nostri abitanti che una palla nemica lo colpisse «in centro alla fronte»" (Piaggia). Il 6 ottobre 1718, durante la costruzione di alcune trincee dirimpetto Porta Messina (incrocio vie Regis e del Sole) e Porta Palermo (incrocio vie XX Settembre e Cosenz), si rese protagonista d'un avvenimento che lasciò sbigottiti i Milazzesi: alle rimostranze d'un soldato che pretese la retribuzione degli straordinari per le fatiche scaturenti dalle imponenti opere di scavo in corso, rispose senza esitazione e con spietata freddezza sguainando la spada ed infilzandola nel petto del malcapitato soldato. Nessuno fiatò: lo scavo delle trincee prosegui come se nulla fosse, provvedendosi in seguito al seppellimento del soldato ribelle tra le sabbie di scavo.

 

Il conte Wallis uccide il 6 ottobre 1718, con spietata freddezza, un soldato che aveva preteso un corrispettivo in denaro per la costruzione di trincee a difesa di Porta Messina, Porta Palermo e di altre porzioni del centro urbano Governando il signor Generale Vallais, tudesco, tutte le truppe con esso condotte, da quelle fece dare principio alle fortificazioni della città, specialmente nelle porte principali di Messina e di Palermo, formandosi trinciere, ed in altri luoghi. E sotto il dì medesimo d’ottobre, assistendo di presenza al lavoro di dette trinciere, un soldato tudesco, quale aveva gagliardamente travagliato,  disse - o per il molto affanno patito o per altra causa - che non si doveva fatigare più dell’ordinario senz’alcuna mercede o tenue pagamento. Il che, avendo inteso il signor Vallais generale, sfodrò la spada e con quella uccise nell’instante al povero soldato con una stoccata nel petto. E con tutta disinvoltura del medemo signor Generale e delli altri officiali con l’altri soldati s’attese a lavorar in dette trinciere con ogni premura ed attenzione, conducendosi doppo il cadavere dell’ucciso soldato a sepellirsi nella sabbia. Se ciò avesse recato meraviglia ed afflizione agli cittadini di questa, non avendo mai pratticato simile uccisione d’uomini per cosa di poco momento, si può reflettere da tutti quei che non s’hanno esercitato nella militia, specialmente col nemico vicino. Quando peraltro se consimili azzioni non si facessero con ogni rigorosissimo attentato si disperderebbe ogni regola militare e non s’avrebbe timore nonché dagli soldati, dagli officiali subalterni ed inferiori appresso e verso gli altri maggiori. E se non s’usassero queste straggi rigorose, senza difficoltà qualunque esercito poderoso, non essendovi la disciplina necessaria coll’obedienza alla cieca a chi domina, fra breve resterebbe disperso.